Alle origini dei mali del Milan

Filtrante di Seedorf per Kakà, assist a Inzaghi e gol: con la quarta sberla al Boca, il Milan torna sul tetto del mondo. È il 16 dicembre 2007.

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9 aprile 2016: angolo dalla destra, palla lenta e prevedibile sul secondo palo, Abate a vuoto, tiro sporco di Pogba e 1-2 Juve a San Siro. Tre giorni dopo, Mihajlovic saluta la panchina del Milan, lasciandolo al sesto posto in classifica a sei giornate dal termine, con la finale di Coppa Italia ancora da giocarsi.

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Due scene, due universi opposti. Otto anni e quattro mesi dopo sembra passata un’era geologica. Che fine ha fatto “il club più titolato al mondo”, lo squadrone che dettava legge in Europa?

Dal trionfo di Yokohama, uno scudetto, una Supercoppa Italiana, sei cambi di allenatori (cinque negli ultimi tre anni) e umilianti ottavo e decimo posto nelle ultime due stagioni. Troppo poco per una squadra e una società gloriosa come il Milan. Nemmeno la finale di Coppa Italia conquistata partendo dai preliminari ed eliminando spauracchi come Perugia, Crotone, Sampdoria, Carpi e Alessandria può bastare a salvare un lustro privo di successi.

Come è arrivato il Milan al punto più basso della gestione Berlusconi? Come si è passati dai Palloni d’Oro di Shevchenko e Kakà alla sfilza di parametri zero che hanno profanato San Siro?

Troppo facile e semplicistico spiegare il tutto con la mancanza di soldi e l’avvento degli sceicchi. L’alibi preferito dal presidente non regge, se si pensa che la Juve post Serie B, dopo appena cinque anni di rodaggio, è riuscita a vincere quattro scudetti di fila col quinto già in tasca e a giocarsi una finale di Champions.

Lo spartiacque della storia recente del Milan è senz’altro la primavera del 2012, l’anno del famoso “gol di Muntari”. Con 4 punti di vantaggio sulla Juve a febbraio e con una rosa sulla carta superiore, i rossoneri riescono a perdere lo scudetto a vantaggio della prima Juve di Conte, complici gli innumerevoli infortuni patiti durante la stagione. Tra gli altri, Ibrahimovic, Pato, Cassano, Boateng, Thiago Silva, Nesta e Seedorf affollano a turno l’infermeria, complice la sciagurata preparazione atletica di mister Allegri e del suo staff.

A fine anno, l’addio dei senatori e le illustri e rimpiante cessioni di Ibra e Thiago lasciano una squadra priva di qualità e soprattutto carisma, con una difficile rifondazione da effettuare dal nulla e senza liquidi.

Il resto è storia recente: rose più umili (chi non ricorda i vari Traoré, Mesbah, Constant e via dicendo?), assenza di campioni (Montolivo capitano, l’acquisto di Balotelli che ha spaccato la tifoseria), scelte di mercato insensate (13 milioni per Matri), scommesse perse (vedi Torres, Cerci o Inzaghi in panchina), cambi di allenatori, classifiche deficitarie, sconfitte clamorose e perfino un progetto giovani condotto in maniera a tratti incomprensibile (su tutte, la gestione dei casi Saponara ed El Shaarawy). In una parola: mediocrità.

L’ultima scelta dirigenziale in ordine cronologico che ha fatto infuriare la tifoseria è l’esonero di Mihajlovic e la promozione di Brocchi dalla panchina della Primavera a quella della prima squadra. Un percorso che ricorda molto il flop di Inzaghi. I tifosi riconoscono infatti a Miha di avere poche colpe per l’ennesima stagione deludente. Se, da un lato, la rosa sulla carta non è tra le più competitive e, dall’altro, l’allenatore ha dimostrato di provarle tutte (avendo anche il merito del debutto di una promessa giovanissima come Donnarumma), gran parte delle responsabilità non può quindi che ricadere sulle scelte societarie. Un presidente che invece di sostenere la squadra non perde occasione per criticare pubblicamente l’allenatore di sicuro non fa il bene dell’ambiente. E anche quella che poteva diventare la stagione del rilancio, cominciata con un budget consistente investito nel mercato, ha visto alle origini decisioni discutibili e a conti fatti errate, con giocatori strapagati e lacune in alcuni reparti del campo che tuttora sussistono. Se a questo si aggiunge un mercato invernale inesistente, il quadro diventa ancor più drammatico.

Si può però ricondurre il periodo negativo del Milan, che dura da più di una stagione, ad un unico momento e a quel maledetto 2012? Anche con la vittoria dello scudetto si sarebbe trovato privo dei propri senatori nel giro di un’estate. Magari Ibrahimovic e Thiago Silva sarebbero potuti rimanere, ma questo avrebbe semplicemente ritardato l’inevitabile.

La causa dei mali del Milan va semplicemente ricercata nella mancanza di programmazione. Non si ha la minima idea di quel che sta accadendo e soprattutto non vi è l’intenzione concreta di pensare al medio e lungo periodo. L’esatto contrario di quel che ha fatto e sta facendo la Juventus, e i risultati lo testimoniano. Le ingarbugliate vicende societarie (e anche oggi Mr. Bee firma domani, mentre due [!] amministratori delegati si punzecchiano a vicenda) non aiutano di sicuro, e i progetti di un “Milan giovane e italiano” sono stati condotti in maniera scriteriata e soprattutto non sono al momento sinonimo di un Milan competitivo.

Il Milan di Ancelotti nasceva sicuramente da investimenti importanti sul mercato, ma il colpo più sensazionale rimane senza dubbio l’acquisto di un allora giovane e illustre sconosciuto, tale Ricardo Izecson dos Santos Leite, meglio noto come Kaká, portato a Milanello su segnalazione di Leonardo, grande scopritore di talenti poi malamente allontanato dalla società. Destino che toccherà anche a un altro capace dirigente come Braida.

Ciò che è mancato al Milan negli ultimi dieci anni, anche nel pieno dei successi del ciclo Ancelotti, è stata proprio la mancanza nello scoprire altri giovani talenti. L’ultimo, riuscito a metà, è stato probabilmente Pato. Solo in questa maniera è possibile tenere testa ai mercati milionari dei grandi club europei attuali.

Il primo segnale di una mancanza di programmazione va addirittura ricercato all’indomani della dolorosa cessione di Shevchenko nel 2006, con i soldi frettolosamente e malamente reinvestiti in uno dei più grandi flop della storia milanista: tale strapagato Ricardo Oliveira. Da lì in poi, fatta eccezione l’acquisto di Thiago Silva, sessioni di mercato poco utili alla causa e soprattutto non dettate da programmazione: citando solo campioni, le comparsate di Beckham, un Ronaldinho a metà, cessioni illustri e minestre riscaldate (Kakà e Shevchenko in diversi momenti) e via dicendo.

Non è un caso che lo scudetto del 2011 derivi dagli acquisti di Ibrahimovic e Robinho, dettati dalla voglia di vincere tutto e subito e probabilmente da interessi elettorali, sicuramente non da una programmazione meditata.

Le origini dei mali vanno pertanto ricercate prima dello spartiacque del 2012: se ci si è ritrovati di colpo senza ricambio generazionale, evidentemente vi è stata una mancanza negli anni precedenti. Il calcio è sicuramente fatto di cicli, ma vanno poste sempre le basi per il prossimo prima di farne finire uno.

Basteranno i proclami di un Milan giovane e italiano e la promozione di Brocchi ad allenatore della prima squadra per invertire la tendenza degli ultimi anni ed avviare un ciclo vincente come il maestro Ancelotti? I tifosi scommettono di no. In attesa di un Godot, o di un Mr. Bee con la bacchetta magica.