Il calendario (calcistico) come spazio-tempo sociale. Sul perché è così difficile fermarsi.

Per tutti i tifosi la parola calendario ha un significato leggermente diverso da quella che il resto del mondo normalmente intende. Il calendario calcistico, legato indissolubilmente al termine stagione che è il modo con cui i tifosi scandiscono gli anni che passano, fino ad una ventina di anni fa non prevedeva molti dei normali giorni lavorativi ed era scandito essenzialmente dal sabato/domenica di campionato, dal martedì di Coppa Uefa, dal mercoledì di Coppa Campioni e dal giovedì di Coppa delle Coppe. In particolare questi giorni acquistavano un senso solo in relazione alle specifiche competizioni europee e dunque si attivavano solo in determinati periodi dell’anno.

Il resto erano caselle vuote da spuntare in fretta. Poi è arrivato la globalizzazione del calcio o l’Impero, per usare un termine di Tony Negri, che niente crea e niente distrugge ma tutto sussume e rimodella creando un continuo stato da start-up.

Così il calendario del tifoso ha iniziato ad assumere le forme di un’agenda, una di quelle fitte che si inspessiscono con il passare delle settimane. Il venerdì è diventato un giorno di campionato così come il lunedì e, a volte, anche il martedì e mercoledì in caso di recuperi o slittamenti per competizioni nazionali estive. Il martedì e il mercoledì sono diventati i giorni della Champions League che dal 1997 ha iniziato il suo ipertrofismo tentacolare ridefinendo anche il concetto di Champions/Campioni che, non sono più i migliori/vincitori di ogni singolo caminato nazionale, bensì i secondi arrivati, i terzi, i quarti. A volte possono essere addirittura i quinti attraverso un gioco di probabilità e combinazioni.

Il giovedì è il giorno dell’Europa League anch’essa solipsistica “innovazione” della FIFA. Il giovedì però è un giorno molto lungo. Nella fase a gironi può iniziare anche di pomeriggio se le latitudini europee non coincidono.

Stagione 1998/1999, la Lazio è l’ultima vincitrice della Coppa delle Coppe

Fatto sta che il calendario che prima scandiva il tempo del tifoso adesso è diventato una tirannica presenza fagocitante che paradossalmente uccide il senso e la temporalità del tempo stesso negando un’inizio e una fine. Già, perché la fine di un campionato non segna la fine del following, in quanto bisogna seguire le amichevoli estive e le coppe natalizia senza dimenticare tutti i vari lanci di mercato: dal giocatore alla maglia.

Anche la conferenza stampa va calendarizzata e di solito si tiene nelle famose “ore pasti” quelle che prima identificavano l’orario in cui un compratore X chiamava un acquirente Y evitando così di interromperlo nel suo lavoro. Ovviamente chi chiamava durante “ore pasti” era per definizione un “no perditempo”. 

L’etnografo francese Marc Augé, nel suo testo Où est passé l’avenir? (2008) tradotto in italiano come Che fine ha fatto il futuro? (2009) scrive: “La padronanza del calendario è stata una delle forme più efficaci di controllo religioso e/o politico esercitato sulle società, perché il tempo, dato immediato della coscienza, appare simultaneamente una delle componenti essenziali della natura e uno strumento privilegiato per capirla e governarla. I poteri religiosi e politici si sono sempre serviti del tempo per dare alla cultura l’apparenza di un fatto naturale. Tutte le rivoluzioni hanno dovuto fare i conti con la necessità di ridefinire l’impiego del tempo e di rifondare il calendario per cercare di cambiare la società.” Questa concezione di tempo, continua Augé è estremante collegata al concetto di spazio creando così una sorta di spazio-tempo sociale “il cui grado più o meno forte di coesione corrisponde alle diverse modalità organizzative.”

Il discorso di Augé, al quale si deve già la definizione di non-luogo (non-lieux), si complessivizza e si comprime a causa di quella dimensione, che definisce come sur-modernité, dove essenzialmente si vive in un eterno e continuo presente. A partire dal 1989, ovvero, dalla caduta del muro di Berlino, il nostro mondo/modo ha subito un’alterazione/velocizzazione tale da ridefinire la stessa definizione di tempo e temporalità. Il passare de tempo non è più scandito da determinati eventi e momenti sociali e la varie filosofie del “Forever Young” e dello “Y.O.LO (You only live once)” – per citarne solo i più banali – hanno sancito la presentificazione del tutto. In circostanze come queste, una pandemia batteriologica globale diventa improvvisamente il prima e il dopo. Funge, come ogni evento catastrofico e bellico, da spartiacque e riconfigura la necessità della pausa, momento questo essenziale per capire lo stesso scorrere del tempo.

E così il campionato sospeso diventa un prima e un dopo a sua volta, una sorta di meridiana che segna un tempo, un intervallo, in attesa di una ripartenza. La sospensione di per sé – proprio perché ormai assuefatti dalla sur-modernité – è un atto difficile da prendere perché comporta a catena una serie di conseguenze di cui molti non hanno né memoria né esperienza. Ma è una decisione che va presa.

Il giocatore del Chelsea Callum Hudson-Odoi, positivo al test per il Covid-19

La FIFA e i campionati corona free, forse stanno tardando ad arrivare ad una decisione in tal senso proprio perché sanno che così facendo ucciderebbero uno spazio-tempo sociale diventato oggi ancor di più fondamentale dal momento che la clausura forzata uccide essa stessa la spazialità e la temporalità.

Il ritardo a prendere una decisione in merito alle sospensioni dei campionati, però, nonostante Augé non ha nulla a che vedere con tutto questo. Anzi, tutto questo mio discorso è stato inutile come un assalto all’arma bianca. In fin dei conti io sono il primo a non voler interrompere i miei spazi-tempi sociali e avevo solo bisogno, più di chi legge, di scrivere ciò che ho scritto.

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