Paolino abita davanti allo stadio. La storia d’amore tra Paolo Poggi, il Venezia e i suoi tifosi (pt.2)

di Tommaso Vianello 

DAL PUPONE AL BISONTE (E QUELLE DUE COLTELLATE AL CUORE)

Nel gennaio del 2000 la Roma di Fabio Capello acquista il ventinovenne Poggi dall’Udinese: l’occasione della vita in una piazza affamata di scudetto. Oltre ad una concorrenza in attacco d’altissimo livello (Totti, Montella, Delvecchio, giusto per fare i primi tre nomi), non scatta alcuna chimica con l’allenatore, che lo fa scendere in campo solo in 11 occasioni. Nell’estate del 2000 approda in giallorosso anche Batistuta e lo spazio davanti si restringe ancora di più; nel gennaio successivo Poggi va quindi in prestito a Bari. In Puglia riprende a fare gol (4 in metà campionato) e soprattutto assist, ma non bastano a salvare i pugliesi. Al termine di quella stagione 2000/01 viene ceduto al Parma e da qui, nuovamente in prestito, arriva in un Piacenza alla ricerca della salvezza nella massima serie. 

La concorrenza in casa giallorossa. Francesco Totti

Suo partner d’attacco, nel 4-4-2 di Walter Alfredo Novellino, il mitologico Dario Hubner, il “bisonte di Muggia”: con 24 centri, fondamentali nel garantire ai biancorossi emiliani la permanenza in serie A, conquisterà il titolo di capocannoniere del campionato, terza volta per un partner d’attacco di Paolino dopo Bierhoff ed Amoroso (e se tre indizi fanno una prova..). La coppia Poggi-Hubner è perfettamente assortita: Darione, tra una sigaretta e l’altra, pensa a buttarla dentro, mentre a muoversi tra le linee per trovare il corridoio giusto c’è Paolino da Sant’Elena. Sigla solo tre reti, tutte nel mese di dicembre, ma sono, per fortuna o purtroppo, indimenticabili. 

La prima arriva il 2 dicembre 2001 allo stadio Franchi di Firenze: pronti, via e il pressing del duo d’attacco del Piacenza costringe all’errore la difesa viola, che aveva appena ricevuto palla dopo il calcio d’inizio battuto dalla stessa Fiorentina. Stavolta è Darione, con un tocco furbo in pressione, a servire la palla a Paolino, il quale si invola e appena dentro l’area fa partire un destro che si insacca potente e preciso sotto la traversa: sono passati appena 8 secondi e qualche decimo e, tutt’oggi, quello rimane il gol più rapido mai segnato in serie A.

Il nuovo compagno di reparto. Dario Hubner (in questa foto durante la sua militanza al Cesena)

Le altre due reti arrivano a 14 giorni di distanza, nel recupero della sesta giornata disputata il 19 dicembre anziché a fine settembre, per una serie di rinvii scaturiti dagli attentati dell’11/9 statunitense. Di fronte, al Pierluigi Penzo di Sant’Elena, a non più di 150 metri in linea d’area dalla casa dove è nato, si trovano il Venezia di Paolino e il Piacenza di Poggi, la squadra per la quale non ha mai nascosto l’amore incondizionato e il suo presente, fatto di una casacca biancorossa da difendere come ogni professionista deve fare. Il Venezia è già con l’acqua alla gola, sembra un’annata a tinte fosche e infatti sarà così (e forse pure peggio); in quel dicembre, le speranze di salvezza degli arancioneroverdi passano in gran parte attraverso lo scontro diretto con il Piacenza. Le premesse (il “ritorno a casa” di Poggi e dell’ex tecnico Novellino, un Venezia che con la grinta di Beppe Iachini in panchina, subentrato da poco, sembra in crescita) paiono perfette; e infatti gli arancioneroverdi giocano bene, nonostante un clima gelido sia letteralmente (ricordo le difficoltà di equilibrio per il ghiaccio, specie sulla fascia sotto la tribuna), sia metaforicamente, complice la contestazione dei tifosi rivolta comunque non tanto alla squadra, quanto alla società (era già chiaro il disimpegno di Zamparini, che infatti l’estate seguente depauperò il club portando via giocatori e dirigenti in direzione Palermo). A dirla tutta, il Venezia in quell’occasione gioca una delle sue migliori partite e sulle tribune applausi e cori spontanei prendono via via il posto della contestazione: squadra e pubblico sembrano dire, insieme, che il Venezia c’è e vuole rimanere aggrappato sino alla fine alla serie A con le unghie e con i denti. Al vantaggio nel primo tempo di Maniero (minuto 35), segue il pareggio piacentino a firma Gautieri dopo 10’ della seconda frazione; il Venezia non demorde e trova la rete del nuovo vantaggio con Magallanes, appena 3’ dopo aver subìto la parità. I tre punti sembrano quasi in tasca, qualcuno addirittura inizia a stilare mentalmente la classifica che scaturirebbe in virtù del successo arancioneroverde, la permanenza nella massima serie non appare una chimera come invece un paio d’ore prima. La pressione del Piacenza è relativa e non sembra poter mettere in discussione il successo di un Venezia che si difende senza troppi affanni; e invece, a 9 minuti dalla conclusione, ecco quel volto familiare infliggere la prima coltellata al costato arancioneroverde, utile al Piacenza per raggiungere la parità. Mica finita, perché subito dopo (minuto 38 del secondo tempo) el bocia de sant’eeena colpisce al cuore i lagunari per la seconda volta. Due gol belli, a cui Paolino reagisce senza esultare, con la faccia di chi ha fatto il suo dovere ma non avrebbe voluto, non così, non oggi, non di fronte ad un Venezia derelitto, affondato definitivamente da quella doppietta, sicuramente la più amara della sua carriera. Il buio più pesto cala così sulla squadra di mister Iachini, sul Penzo, sul rientro a casa di ogni tifoso, giunto allo stadio magari sin dal principio abbastanza disilluso, eppure devastato dal copione di quel pomeriggio beffardo e carogna, emblema perfetto di una stagione nata male e conclusa peggio. 

Sugli spalti, dopo i cori affettuosi e ironici fatti in precedenza (“Ed è la Sud che te lo chiede, e Paolo Poggi facci un gooool”, presto tramutato in “E Paolo Poggi un autogol” a cui il nostro risponde con saluto e sorriso), qualcuno tira fuori anche la rabbia nei confronti del bocia: “Ghesboro Poggi, proprio oggi ti gavevi da far doppietta, itamorti!!”; oppure “Xe inutie che no ti esulti, ti ne ga mandà in serie B!!”, anche se in realtà tutti sanno che in serie B ci saremmo andati comunque, anzi, ci si era già in un certo senso. Paolino alza le mani quasi a chiedere scusa, ma non è certo colpa sua se si sta scivolando mestamente verso il baratro; più della rabbia, in quel momento sul Penzo regna lo sconforto, a cui i reciproci applausi dopo il 90° tra Poggi e il pubblico lagunare aggiungono un tocco romantico e nostalgico, utile ad accentuare la sensazione di paradosso scaturita dalla trama di quel match balordo. Come del disinfettante su una ferita appena aperta: serve, lo sai che serve, ma brucia da morire.

Paolino quella sera non tornerà a casa con il resto dei compagni, ma lascerà il Penzo a piedi e, dopo un ponte e qualche calle, arriverà a casa, non più quella dei genitori bensì la “sua” di uomo adulto, sempre rigorosamente in laguna. Uscendo dallo stadio, Poggi lo sentirà tutto il dramma sportivo dei veneziani calciofili, sentirà l’umore di una piazza abbandonata a sé stessa da un padre-padrone come Zamparini che si è stancato del suo giocattolo e lo sta lasciando morire con sadico cinismo: “salvaci tu!” gli urla qualcuno durante il corto tragitto verso casa.

Non so se sia in quel momento, o solo qualche mese dopo quando il disegno di Zamparini si concretizzò, che in lui matura la consapevolezza di dover tornare a casa anche da un punto di vista professionale; a me piace pensarlo con la borsa in spalla, sulla via di ritorno, attorniato da sguardi amici e conosciuti; e riconoscere, in quegli stessi sguardi, una chiamata di aiuto, alla quale la medesima sera decide di rispondere presente. Come un super-eroe.

MIA CARA VENEZIA (VOLUME I)

Il presidente uscente Maurizio Zamparini

L’estate del 2002, per la Venezia calcistica, è l’incubo che si materializza: dopo la retrocessione e l’addio alla serie A, Zamparini lascia, come oramai era evidente da alcuni mesi. Lo fa nella peggiore maniera possibile: decide di usare il “metodo Cartagine”, spargendo sale affinché nulla possa più crescere; acquista il Palermo in serie B e porta con sé i giocatori del Venezia, che dalla sera alla mattina cambiano squadra come nulla fosse, senza una reale compravendita, come fossero nanetti da giardino da trasferire da un domicilio all’altro. La società arancioneroverde viene abbandonata nelle mani di Franco Dal Cin, personaggio nebuloso del mondo del pallone a cui Zamparini lascia un club ormai costituito solo da debiti e qualche scarto. Leggere la parte sportiva dei giornali locali, in quell’estate, è un esercizio di masochismo, ma le vere pugnalate alla schiena arrivano dall’indifferenza generale, perché Venezia non è piazza da muovere le grandi testate e tutto si consuma nel silenzio dei quotidiani nazionali e delle loro firme, che anzi spesso plaudono al nuovo corso del Palermo: una corazzata costruita da Zamparini per salire subito in serie A.

 

Ben diverse le prospettive del Venezia: già allestire una squadra sembra un successo, si naviga a vista con poco entusiasmo e ancor meno risorse. Dal Cin (assieme al figlio) costruisce una rosa fatta di giocatori svincolati e stranieri sconosciuti, mettendo alla guida di quel gruppo sgangherato un volto noto alla piazza: Gianfranco Bellotto, in passato già allenatore degli arancioneroverdi nella serie B degli anni Novanta. È un nome capace di trasmettere fiducia, perlomeno per raggiungere una salvezza che comunque appare tutto fuorché scontata, dopo l’estate più nera del calcio veneziano. Fiducia che assume maggiore concretezza quando Dal Cin, in un modo o nell’altro, riesce a convincere il Parma (detentore del cartellino) a lasciar andar via in prestito Poggi; anzi, sarebbe meglio dire che lo stesso Poggi riesce a convincere il Parma, dato che l’attaccante bussa alla porta dei dirigenti ducali per chiedere di essere lasciato libero di tornare nella sua Venezia a dare una mano. Per farlo, è necessaria anche una forte riduzione del suo ingaggio, insostenibile per le disastrate casse della società arancioneroverde. Non solo, perché Paolino si trasforma anche in dirigente e non è un caso se, ad esempio, pure Alessandro Calori (suo compagno a Udine, una carriera sui campi della serie A) si fa convincere dall’amico accettando la sfida veneziana. Sulle spalle di Poggi e Bellotto (due cuore arancioneroverdi, ciascuno a suo modo) gravano le speranze dei tifosi. Si badi bene, mica speranze di promozione o chissachè: il tifoso veneziano medio, nell’estate del 2002, prega la dea Eupalla affinché il campionato alle porte possa portare, se non proprio gioie, perlomeno qualche sventura in meno di quello precedente: una salvezza- anche all’ultimo minuto dell’ultima giornata- e la prospettiva di non fallire miseramente subito dopo, sono il massimo a cui aspirare ai nastri di partenza della stagione 2002/03.

Una missione che quella banda sgangherata, assemblata in poche settimane e senza alcun soldo, pescando qua e là tra i calciatori disoccupati della penisola, riuscì a compiere (ovviamente all’ultima giornata) al termine di uno dei campionati che ricordo con maggiore gioia. Sarà che sentirsi soli contro tutti aiuta l’empatia, sarà che ci stava Paolino, sarà che a novembre, nel primo faccia a faccia contro il Palermo di Zamparini, quel gruppo fantastico riuscì nell’impresa di espugnare il Barbera (0-2, gol di Brncic, l’uomo da una sola vocale, e di Poggi, chi altri sennò?), regalandoci pura e magnifica estasi vendicativa; non so cosa fu, ma fu qualcosa di elettrico, in grado di far meritare al Venezia 2002/03 un posto sul mio personalissimo podio delle squadre arancioneroverdi preferite.

Terminato il prestito, nell’estate del 2003 Poggi tornerà al Parma, per poi passare all’Ancona neopromosso in serie A. Una parentesi durata pochi mesi: a gennaio 2004 il suo Venezia ha ancora bisogno di aiuto, serve tornare in laguna a confutare per la seconda volta la tesi per cui in patria nessuno può essere profeta.

MIA CARA VENEZIA (VOLUME II)

L’Ancona in cui Poggi ha la sfortuna di capitare, è una delle farse societarie e tecniche del calcio italiano di quella fase; difficile trovare lungo la penisola qualcosa di meno serio, perlomeno a livello dirigenziale e organizzativo, impresa in cui comunque Paolino riesce. Basta infatti rivolgere lo sguardo verso la sua Venezia per trovare una società in condizioni forse peggiori dell’Ancona in cui milita per pochi mesi. A gennaio fa le valigie per scendere di categoria, abbassarsi nuovamente lo stipendio e tornare in laguna, con l’obiettivo di portare la squadra arancioneroverde verso un’altra difficile salvezza. Sembrerà un traguardo banale, ma il nostro sa bene che retrocedere equivarrebbe a sicuro fallimento della società e del titolo sportivo, per cui la permanenza in categoria non è fine a sé stessa, ma significa ben altro; innanzitutto, e scusate se è poco, sopravvivenza. 

Durante la pausa invernale la squadra, affidata ad inizio campionato ad Angelo Gregucci, naviga nei bassifondi della classifica e l’apporto di Poggi appare fondamentale per riportare entusiasmo e far crescere il tasso tecnico e d’esperienza della rosa. Pochi giorni dopo il suo secondo ritorno in laguna, arriva al Penzo, in un pomeriggio assolato di inizio febbraio, l’Atalanta, capolista imbattuta e già con un piede in serie A; un pareggio contro la Dea, per il Venezia che annaspa, sarebbe già grasso che cola. Gli arancioneroverdi però, con Poggi in campo, diventano più coraggiosi di quelli visti nel girone d’andata. L’Atalanta non trova spazi e, in avvio di ripresa, ecco scaturire sotto la Curva Sud, sotto il mio sguardo, uno dei gol più belli a cui abbia assistito dal vivo. 

La palla arriva a Paolino spalle alla porta, a quattro o cinque metri dall’area di rigore, un po’ spostato sul lato destro dell’attacco; il numero 71 arancioneroverde (da qualche anno ha abbandonato lo “storico” 11 per passare all’anno di nascita) si trova attorniato da almeno tre giocatori bergamaschi, uno dei quali, ricordo come fosse ieri, è Marcolini, onesto centrocampista di rossa capigliatura con una discreta carriera all’attivo. Sempre spalle alla porta, con un tacco Poggi fa passare la palla sotto le gambe di Marcolini, spostando in questo modo la sfera verso il centro e avvicinandola di qualche metro all’area, praticamente sul semicerchio. Da lì, Paolino da Sant’Elena, fa partire un tiro a giro che accarezza il palo e si infila in porta, con Taibi immobile ad osservare: una delle gioie più grandi provate allo stadio!

 La partita terminò con l’imprevedibile successo del Venezia in virtù di quella splendida rete; e se per caso voleste controllare in internet, più di uno scarno tabellino è difficile trovare. Sì, insomma, su varie piattaforme potrete trovare diverse immagini di molti Venezia-Atalanta, i più conclusi con la vittoria ospite; ecco, quelli con le vittorie ospiti ci sono, mentre del successo targato Poggi c’è il nulla totale, ma vi assicuro che poche cose sono scandite così bene nella mia memoria. Forse sì, il cappello da doge e il mantello da super-eroe, che sono quasi sicuro indossasse il nostro in quell’occasione, possono essere frutto di fantasia; difatti, ho evitato di citarli sino a qua. Il resto, però, è tutto vero, compresa la salvezza ottenuta poi da quel Venezia dopo un doppio spareggio con il Bari (1-0 pugliese all’andata, 2-0 lagunare nel ritorno del Penzo). 

Come ormai tradizione, tuttavia, a fine campionato la società- ancora capeggiata da Dal Cin- non fece nulla per trattenere Poggi il quale, messo di fronte ad un progetto sportivo imbarazzante, partirà in direzione Mantova, club ambizioso di C1 dove ritroverà il “bisonte” Hubner, partecipando da protagonista ad un biennio d’oro del calcio virgiliano.

UN DOGE A MANTOVA

Mantova. Coreografia della Curva Te

Mama Madona dei venessiani – Ti te ricordi secoi fa? – L’ambasciatore dei mantovani – a giugno ea peste el na portà”: canta così Alberto D’Amico, nella bellissima canzone “Mama Madona dei venessiani”, struggente lirica dedicata alla Madonna della Salute e al voto (costruire una chiesa in onore della Vergine) che fecero i veneziani nel diciassettesimo secolo, affinché terminasse il morbo. Non so se fu proprio colpa dell’ambasciatore mantovano (il paziente zero della peste?); di certo, secoli dopo, Paolo Poggi compie il percorso inverso, con inversi risultati rispetto allo sfortunato ambasciatore. Venezia fa partire uno dei suoi figli prediletti, Doge calcistico che si farà ben volere anche in terra virgiliana. 

A Mantova- stagione 2004/05- Paolo riabbraccia come detto Dario Hubner e, pur in serie C1, trova una piazza affamata di calcio, una presidenza in quel momento apparentemente illuminata (solo qualche anno dopo il patron Fabrizio Lori si rivelerà invece essere uno dei tanti approfittatori saliti sul carro dello sport più amato) e un progetto sportivo ambizioso, con una squadra che centra al primo colpo la promozione attraverso i playoff anche grazie ad una fantastica rovesciata di Poggi nella fase decisiva della stagione. Il “bisonte” (di quattro anni più anziano di Paolo, nonché dedito a grappe e sigarette in misura maggiore rispetto al nostro) lascerà il professionismo, mentre Poggi proseguirà l’esperienza virgiliana per un’altra stagione, godendosi la serie B conquistata sul campo. 

Una serie B- stagione 2005/06- che il Mantova onora alla grande riuscendo, da neopromossa, a stupire tutti arrivando sino alla finalissima playoff per salire in A contro il Torino. Alla fine, sono i granata a conquistare la massima serie e non basta al Mantova un gol di Poggi nella gara di ritorno per difendere il 4-2 dell’andata: i virgiliani vengono infatti sconfitti 3-1 al Delle Alpi e abbandonano i sogni di gloria. 

Il richiamo della laguna, nel frattempo, si è fatto più forte per Paolo ed in società, complice un sopraggiunto fallimento, qualcosa è cambiato: il Doge può finalmente tornare a casa.